Momenti di lettura da SOLARIS di Stanisław Lem

 

Miriam: Vorremmo ora condividere alcuni momenti di lettura dal testo Solaris. A leggere i primi cinque brani selezionati, in lingua italiana e polacca, saranno alcuni soci dell’associazione, mentre la traduttrice Vera Verdiani ci onorerà con la lettura del sesto e ultimo brano.

 

La scelta delle pagine, necessariamente riduttiva rispetto alla ricchezza di temi e di generi letterari evocati dal romanzo, ha l’idea di contatto come filo conduttore. Il contatto tra lingue e culture è il fine dell’associazione così come lo scopo del lavoro di traduzione e un contatto è, speriamo, ciò che stiamo assaporando in questo incontro successivo a mesi di isolamento.

 

 

PRIMO BRANO

 

Miriam: Il protagonista, Kevin, sta per giungere alla stazione spaziale che orbita intorno all’omonimo pianeta.

 

Leggono Mariella in polacco e Marilina in italiano:

 

Stazione Solaris – chiamai. – (….) Stazione Solaris! Fate qualcosa, sto perdendo stabilità. Stazione Solaris, qui visitatore in arrivo. Passo."

 

Avevo perso un altro momento importante, quello della prima apparizione del pianeta. Mi si stendeva davanti nella sua piatta immensità; la dimensione dei solchi sulla sua superficie mi faceva capire di esserne ancora lontano o, piuttosto, di essere alto, avendo oltrepassato l’inafferrabile confine oltre il quale la distanza da un corpo celeste era l’altezza. Cadevo, continuavo a cadere: adesso lo percepivo anche ad occhi chiusi. Ma subito li riaprii, volevo vedere il più possibile.

 

Lasciai trascorrere qualche secondo e ripetei l’appello. Neanche stavolta ottenni risposta. Nelle cuffie crepitavano salve di scariche atmosferiche accompagnate in sottofondo da un brusio talmente basso e cupo da parere la voce del pianeta. Nell’oblò il cielo arancione si ricoprì di un velo e il vetro si oscurò. (…..) Continuavo a planare ora nel sole ora nell’ombra, la capsula girava intorno al suo asse verticale e l’immenso, turgido disco solare mi passava davanti spuntando da sinistra e sparendo da destra. A un tratto (…) mi giunse all’orecchio una voce lontana:

 

Stazione Solaris a volo in arrivo, Stazione Solaris a volo in arrivo. Tutto a posto, siete sotto il controllo della Stazione. Stazione Solaris a volo in arrivo, prepararsi ad atterrare all’ora zero, ripeto prepararsi ad atterrare all’ora zero. Attenzione, inizio del conto alla rovescia.

 

"Duecentocinquanta, duecento quarantanove, duecentoquarant’otto...”

 

 

SECONDO BRANO

 

Miriam: Arrivato alla stazione, Kevin la trova quasi deserta e in stato di semi-abbandono. Si addentra nella biblioteca che contiene migliaia di volumi dedicati alla Solaristica, la scienza multidisciplinare dalle numerose, complesse e faziose branche sviluppatasi dopo la scoperta del pianeta, risalente a 100 anni prima della sua nascita.

 

Legge Francesco, in italiano:

 

Rimisi a posto il grosso tomo e presi il successivo. Si divideva in due parti: la prima riportava i rapporti di tutti gli innumerevoli tentativi di stabilire un contatto con l’oceano. Ricordavo fin troppo bene di come, al tempo dei miei studi, quei tentativi fossero fonte di aneddoti, scherzi e barzellette a non finire; in confronto al caos suscitato da quell’enigma, la scolastica medioevale sembrava un modello di chiarezza. La seconda parte, di quasi milletrecento pagine, comprendeva unicamente la bibliografia sull’argomento. La stanza in cui mi trovavo non sarebbe bastata a contenere tutti i testi citati. (.….)

 

Riponendo sulla mensola il volume, pesante al punto che dovetti sollevarlo con entrambe le mani, pensai che tutta la nostra conoscenza di Solaris accumulata nelle biblioteche non era che inutile zavorra, una palude di fatti, e che ci trovavamo esattamente allo stesso punto in cui, settantotto anni prima, avevamo cominciato a raccoglierla; anzi la situazione era molto peggiore, visto che la fatica di tutti quegli anni si era rivelata vana.

 

Le uniche conoscenze sicure che avevamo a suo riguardo erano negative.”

 

TERZO BRANO

 

Miriam: È il contatto con l’oceano potente e misterioso che ricopre il pianeta il fine ultimo della Solaristica e anche dello psicologo Kevin. Sulla stazione incontra gli scienziati Snaut e Sartorius. Presto viene visitato da Harey, sorta di replicante della sua giovane moglie morta suicida a venti anni, dodici anni prima, per la cui morte Kevin prova inconfessati sensi di colpa. Harey è il regalo/la tortura che l’oceano gli avrebbe inviato carpendo i segreti del suo inconscio. Anche Snaut e Sartorius hanno dei visitatori, ma meno presentabili della giovane moglie, in quanto derivanti da impulsi e desideri inconfessabili. Ecco come Snaut commenta lo spirito che anima la ricerca umana nello spazio, che in questo romanzo è sia esteriore che interiore.

 

Legge Marilina, in italiano:

 

Prendiamo un uomo normale – disse. – Che cos’è un uomo normale? Uno che non ha commesso niente di orribile? Ma siamo sicuri che non ci abbia mai pensato? Magari a pensarci potrebbe non essere stato lui, ma un qualcosa affiorato dentro di lui dieci o trent’anni prima; un qualcosa che lui aveva combattuto e che aveva smesso di temere sapendo che tanto non l’avrebbe mai messo in atto... Mi segui? E, adesso, immagina che a un tratto, in pieno giorno, quell’uomo incontri tra la gente quel qualcosa incarnato, inscindibile dalla sua persona, indistruttibile. E allora... sai che succede allora?

 

Succede la Stazione – disse piano. – Succede la Stazione Solaris. (…..)

 

Sto parlando precisamente di Solaris, solo di Solaris, di nient’altro che di Solaris. Non è colpa mia se diverge così drasticamente dalle tue aspettative. Del resto, ormai ne hai viste abbastanza per potermi ascoltare fino in fondo. Noi uomini partiamo per il cosmo pronti a tutto: alla solitudine, alla lotta, al martirio e alla morte. Anche se per pudore non lo proclamiamo a gran voce, spesso siamo convinti di essere persone straordinarie. In realtà quello che vogliamo non è conquistare il cosmo, ma estendere la Terra fino alle sue frontiere. (…..)

 

Siamo nobili e umanitari, non vogliamo asservire altre razze ma solo trasmettere loro i nostri valori e, in cambio, impadronirci del loro patrimonio. Ci consideriamo i cavalieri del Santo Contatto, e questa è la menzogna numero due: la verità è che cerchiamo soltanto la gente. Non abbiamo bisogno di altri mondi, ma di specchi. (…..)

 

Tuttavia, di quel mondo, c’è anche qualcosa che rifiutiamo, da cui ci difendiamo... Il fatto è che non arriviamo dalla Terra come campioni di virtù o come monumenti dell’eroismo umano: ci portiamo dietro esattamente quello che siamo e quando l’altra parte ci svela la nostra verità – il lato che ne teniamo nascosto – non riusciamo ad accettarla!

 

E cioè, che cosa? – chiesi dopo averlo pazientemente ascoltato.

 

Quello che volevamo: il contatto con un’altra civiltà. E adesso che ce l’abbiamo, vediamo che si tratta solo della nostra mostruosa bruttezza, della nostra follia e della nostra vergogna ingrandite al microscopio!”

 

 

QUARTO BRANO

 

Miriam: Uno dei fulcri del romanzo è la struggente e dolorosa storia di amore tra Kevin e Harey. È una storia caratterizzata da rifiuto e bisogno reciproco e soprattutto da una lucida ricerca della propria identità da parte di Harey, o meglio di Harey seconda o Harey terza. È una vicenda segnata dal ricordo e dall’assenza di ricordo, dai vari piani del tempo che, complice il sogno, per Kevin si confondono e sovrappongono.

 

Leggono Marysja e Angelo in italiano (solo il dialogo):

 

- Harey? … Harey?... Io... io non sono Harey. Ma chi... chi sono? E tu? Tu?

 

Chris, ma forse anche tu... Chris! Anche tu?

 

No… No: tu hai paura. Ma io così non ce la faccio. Non è possibile. Io non sapevo niente e anche adesso continuo a non capire. Non è possibile! Io... io non so niente all’infuori di Harey! Pensi che stia fingendo? Non fingo, parola d’onore che non fingo!

 

Lasciami! Lasciami! Ti disgusto, lo so! Ma io così non posso, non posso! Lo vedi anche tu che non sono io, non sono io, non sono io...

 

Taci!

 

Chris … dimmi che cosa devo fare per non esserci più, Chris...

 

Smettila!

 

Non dirmi che... non lo sai neanche tu? Non ci si può fare niente? Proprio niente?

 

Harey... per pietà...Io ci ho provato... l’hai visto, no? No, no, lasciami! Non voglio che mi tocchi! Ti disgusto!

 

Non è vero!

 

Stai mentendo. Non è possibile che non ti faccia ribrezzo: lo faccio perfino a me stessa. Se potessi, se solo potessi...

 

Ti uccideresti?

 

Sì.

 

Ma io non voglio, capisci? Non voglio che ti uccida, voglio solo che tu stia qui con me, non ho bisogno d’altro!

 

Che bugiardo...

 

Dimmi che cosa devo fare per convincerti che sto dicendo la verità, la sola, l’unica...

 

Non è possibile che tu dica la verità. Non sono Harey.

 

E chi sei?

 

Harey... Però... so che non è vero. Non sono la stessa che un tempo hai amata laggiù...

 

Sì…. Quel che è stato non c’è più. È morto. Ma qui e adesso, io amo te. Capisci?”

 

 

QUINTO BRANO

 

Miriam: Per comunicare con l’oceano Sartorius decide di bombardarlo di radiazioni e trasmettere attraverso esse l’elettroencefalogramma di Kevin. Kevin accetta, motivato a comprendere il mistero di Solaris prima che la Solaristica, la stazione Solaris e persino, forse, lo stesso pianeta completino un processo di decadenza e di autodistruzione a cui sembrerebbero avviati. Ecco un esempio di come l’oceano reagisce all’esperimento degli scienziati, con una delle sue sorprendenti e sublimi emanazioni, un simmetriade.

 

Legge Janusz in italiano e in polacco (la sezione tra due parentesi):

 

Per quarantotto ore un invisibile fascio di raggi X, modulato dal mio encefalogramma, colpì a regolari intervalli di qualche ora la superficie quasi completamente liscia dell’oceano.

Verso la fine del secondo giorno ci trovavamo talmente vicini al polo che, mentre il disco del sole azzurro spariva quasi interamente sotto l’orizzonte, dal lato opposto un turgore di nubi scarlatte annunciava già il levarsi del sole rosso. Nella nera immensità dell’oceano e nel cielo deserto sopra di esso dilagava una lotta (…) tra violenti colori dagli infuocati riflessi metallici luccicanti di un verde velenoso, e cupe, smorzate fiamme sanguigne; e l’oceano stesso era striato dai violenti incendi dei due dischi contrapposti, l’uno mercuriale e l’altro scarlatto. (…..)

 

Subito dopo il tramonto del sole azzurro, sull’orizzonte nord-occidentale apparve un Simmetriade (…) annegato nella bruma rugginosa, distinguibile solo da intermittenti luccichii di specchi e simile a un gigantesco fiore di vetro spuntato tra cielo e plasma. La Stazione non modificò la propria traiettoria e dopo circa un quarto d’ora il colosso, palpitante di rosso come una moribonda lampada di rubini, tornò a dissimularsi dietro l’orizzonte. Qualche minuto più tardi una sottile colonna, la cui base ci era nascosta dalla curvatura del pianeta, emerse e si innalzò silenziosamente per alcuni chilometri nell’atmosfera.

 

(Quel chiaro segno della fine del simmetriade, per metà rosso sangue e per metà splendente come una colonna di mercurio, si dilatò in un albero bicolore; poi le cime sempre più rigogliose dei suoi rami si fusero in una nube a forma di fungo che, nel riverbero dei due globi solari, se ne volò via per un lungo viaggio sulle ali del vento, mentre la parte inferiore, sparpagliata a grossi grappoli su circa un terzo dell’orizzonte, ricadeva con estrema lentezza.)

 

"In capo a un’ora, dello spettacolo era sparita ogni traccia.”

 

 

SESTO BRANO

 

Miriam: Impaziente, dopo aver ipotizzato l’esistenza di un dio imperfetto, un dio bambino, un dio che semplicemente è, Kevin decide di entrare in contatto con l’oceano e si avventura con un elicottero, planando su un vecchio mimoide, un’altra irripetibile formazione, dalle connotazioni paterne.

 

Legge Vera Verdiani:

 

Dopo che dal mio osservatorio aereo ebbi esaminato quante più cose potevo, scesi cautamente verso il basso; stranamente, solo allora mi resi conto che il mimoide non mi interessava affatto e che ero venuto lì non per fare conoscenza con lui, ma con l’oceano.

 

Mi sedetti sulla ruvida superficie screpolata, con l’elicottero a una ventina di passi dietro di me. Un’onda nera si abbatté pesantemente sulla riva spandendosi e perdendo colore, quindi si ritirò scorrendo verso il basso in sottili filamenti mucosi. Mi avvicinai ulteriormente all’oceano e allungai la mano verso un’onda in arrivo. Si ripeté fedelmente il fenomeno sperimentato per la prima volta dall’uomo quasi un secolo prima: l’onda esitò, si ritirò e infine mi avvolse la mano senza toccarla, in modo da mantenere una sottile intercapedine tra la superficie del guanto e l’interno della cavità, divenuto istantaneamente da fluido a quasi carnoso. Sollevai lentamente la mano: l’onda o, piuttosto, la sua esile propaggine, la seguì all’insù continuando ad incistarla in un traslucido involucro verde sporco. Mi alzai in piedi per portare la mano ancora più in alto: l’istmo gelatinoso si tese come una corda ma senza rompersi, mentre la piatta base dell’onda, come una strana creatura in paziente attesa della fine degli esperimenti, aderiva al suolo intorno a miei piedi, sempre senza sfiorarli. Si sarebbe detto che dall’oceano fosse spuntato un duttile fiore il cui calice mi avvolgeva le dita trasformandosi, senza toccarle, nel loro esatto negativo. Arretrai. Lo stelo vibrò e, come a malincuore, ricadde; elastica, titubante, malcerta, l’onda affluì, lo risucchiò e sparì oltre l’orlo della riva. Ripetei il gioco finché di nuovo, come cento anni prima, l’onda di turno si tirò indietro quasi ormai sazia di quella nuova impressione. Sapevo che per stuzzicarne nuovamente la «curiosità» avrei dovuto aspettare alcune ore. Tornai a sedermi nella posizione di prima, ma sentendomi in un certo senso mutato. Il fenomeno che avevo provocato, e che finora conoscevo solo in teoria, mi aveva come trasformato: la teoria non poteva, non riusciva a tradurre l’esperienza vissuta.

 

Nel germogliare, nel crescere, nel proliferare di quella creatura vivente, da tutti i suoi atti presi singolarmente o nel loro insieme, traspariva una sorta di, per così dire, cauto ma non scontroso candore percepibile ogni volta che, accanitasi a introiettare al più presto una forma inattesa, a metà strada era costretta a tirarsi indietro, come per il timore di trasgredire limiti imposti da una misteriosa legge. Quale inesprimibile contrasto tra quella vivace curiosità e l’immensità distesa ai quattro capi dell’orizzonte! Mai come ora ne avevo percepito l’immane presenza, il possente e assoluto silenzio che respirava al ritmo delle onde. Immobile, lo sguardo fisso nel vuoto, sprofondavo in zone che avrei creduto inaccessibili: pervaso da una sorta di inerzia e di crescente perdita di identità, mi immedesimavo in quel fluido, cieco colosso come se, senza il minimo sforzo, senza una parola e senza pensarci gli perdonassi ogni cosa.

 

 

 

Selezione dei brani e introduzioni a cura dei soci Miriam Giorgio e Angelo Iannella